Syphilidis, sive Morbi Gallici  

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"Syphilidis, sive Morbi Gallici" (1530, English: "Syphilis or The French Disease") is a poem by Girolamo Fracastoro. The name for syphilis is derived from this epic poem in three books. The poem was dedicated to Pietro Bembo.

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Excerpt

Quai varii casi, e germi, un morbo strano,
E non pria visto unquanco, abbian recato;
Morbo, che a' nostri dì per tutta Europa,
E le città d'Asia, e di Libia in parte,
Incrudelì; nel Lazio poi, dei Galli
Per l'empie guerre, irruppe, ond'ebbe il nome;
E qual cura, e d'aita uso comporti,
La grande arte dell'uom negli aspri eventi,
E dai Celesti i doni conceduti,
Quinci a cantar, e le cagioni ascose
Per i campi a cercar del vasto Olimpo,
Comincerò: come gentile amore
Di novità m'invita, e i placidi orti
Di Natura, e i portenti aman le Muse.

Full text[1]

1 La sifilide; ossia del morbo gallico Girolamo Fracastoro 1530 Esportato da Wikisource il 25 giugno 2021. Segnala eventuali errori su it.wikisource.org/wiki/Segnala_errori 2 Questo testo è completo. DELLA SIFILIDE OSSIA DEL MORBO GALLICO POEMA DI GIROLAMO FRACASTORO A Pietro Bembo Indice Libro I Libro II Libro III 3 5 10 15 20 25 Quai varii casi, e germi, un morbo strano, E non pria visto unquanco, abbian recato; Morbo, che a’ nostri dì per tutta Europa, E le città d’Asia, e di Libia in parte, Incrudelì; nel Lazio poi, dei Galli Per l’empie guerre, irruppe, ond’ebbe il nome; E qual cura, e d’aita uso comporti, La grande arte dell’uom negli aspri eventi, E dai Celesti i doni conceduti, Quinci a cantar, e le cagioni ascose Per i campi a cercar del vasto Olimpo, Comincerò: come gentile amore Di novità m’invita, e i placidi orti Di Natura, e i portenti aman le Muse. BEMBO, d’Ausonia chiaro onor, se mai LEON t’allenti dei consigli magni L’alta mole, ond’El regge il mondo tutto, E darti alquanto ami a le dolci Muse: Quest’opra non spregiar, nè la fatica Medica, qual che sia. Di tale Apollo Degnossi; ed anco lievi cose àn pregio, Che in ver sott’esto tenue vel s’asconde Grande origin di fati, e di Natura. Urania tu che astri e cagion conosci, E le plaghe, e del ciel gli effetti varii, 4 30 35 40 45 50 55 (Così mentre che scorri il puro Olimpo, E ne misuri le lucenti stelle, Tutte t’applaudan con divin concento) Dea, vien meco a scherzar fra l’ombre chete, Ve’ dolci spiran l’aure, e i mirti spessi, E risponde dai cavi antri il Benaco. Narra quai cause, o Dea, da tanta etade Diero sì strana lue? Forse condotta Dal mar occiduo a noi sen venne, quando Eletta gioventù dal lido Ibero Sciolse, l’ignoto mar tentando ardita, A cercar terre in altro mondo poste? Poi ch’è fama che eterno il morbo infetti Ognor quei siti per maligno influsso Di ciel, vagando, e la perdoni a pochi. Or crederem, che del commercio a colpa Tal ne venisse lue, che, lieve in prima, A poco a poco indi acquistando forze, E pasco, s’espandesse in ogni terra? Spesso così, se a caso una favilla Cade da lume in su le stoppie, e in campo Riman negletta dal pastor, serpeggia Piccola e tarda sul principio, e poi Cresciuta s’erge, e vincitrice invade Le messi, i solchi, il vicin bosco, e al cielo Vibra le fiamme: crepitando stride Di Giove la foresta, e l’aria e i campi Splendono intorno. — Ma così non déssi Creder, se merta fè quanto vedemmo. Venuta d’oltremar certo non lice 5 60 65 70 75 80 Stimar tal peste, e noi sappiam che molti Fuor di contatto alcun questa medesma Lue spontanea a patir furono i primi. Ma più correr tant’orbe una sol peste E in breve, e a un tempo, non avria potuto. Ve’ i popoli del Lazio, e quei che i paschi Del Sagra erbosi, e i boschi Ausonii, e cole Di Puglia il suol: guarda ove corre il Tebro, E ve’ il Po corre al mar con fiumi cento, E d’onde cento città chete irriga. Non vedi come a un tempo sol la peste Fiera tutti ne trasse a sorte pari? Ch’anzi è fama, non pria d’allor gli esterni Esserne stati infetti, e non gli Iberi, Osi solcar per mar ignoto, averla Contratta pria di lor cui parte il mare, L’alta Pirene, il Ren bicorne, e l’Alpe; O pria di lor cui la fredd’Orsa agghiada. Voi pur, Cartaginesi, al tempo istesso E la sentiste voi che il lieto Egitto, E mietete pel Nilo i campi opimi, E le palme Idumee. Ciò vero essendo, Alta più dunque e più riposta causa (S’i’ non erro) qui v’ha d’origin grave. E pria, nell’alto ciel quanto ed in terra, E nel mar vasto la natura edúca, Non tutto con egual modo procede. Spesso e frequente appar quanto da tenui Sorge primordii, e per contrario rade 6 85 90 95 100 105 110 E a certi luoghi circoscritte, e tempi Si manifestan cose, che principio Àn più forte e riposto, ed altre in luce Non escon fuor da fitta notte, pria Che scorrano mill’anni e larghe etadi. Tanto stan giunti i genitali semi! Dunque poichè non una i morbi tutti Àn dal nascer cagion, la maggior parte Facil mostra principio e nascimento; Altri emergon più radi, e lungamente L’ardue a vincer cagioni, e il fatto arcano Durano, e l’alte a superar tenèbre. Così l’elefantiasi al cielo ausonio Lungamente fu ignota, ed il lichene Che quei del Nilo, e i lor vicini, opprime. Di spezie è tal la dira lue, che or ora Uscita alfin dalla caligin atra Si trasse, e a’ suoi natali infranse i ceppi. La qual però (scorrendo eterno il tempo) È da stimar sovente in terra vista, Benchè sin ora, nè di nome, nota Fosse tra noi, da quando tutte cose L’età remota involve, e i nomi strugge, Nè viddero degli avi le memorie Tardi i nepoti. Pur nasce, ed è nota, Nell’ampio oceano occidental fra quella Gente ch’abita l’orbe or or scoperto: Tanto per varïar d’anni e di cielo E principii e ragion mutan di cose; 7 115 120 125 130 135 140 E il mal, che l’aer ivi, e la terra acconcia, Da sè genera, a noi qui tardo addusse Corso d’età. Di che se brami tutte Saper mai le cagion, pria guarda intorno Quante infettò città, quanto di mondo. Veggendo allor di tanta tabe i germi Non poter della terra, e non del mare Capire in sen, forza ti fia per certo Stimar posta del mal la sede prima Nello stesso aër, che sparso ovunque intorno Penetra i corpi tutti in ogni parte, Di tai pesti a infettar uso i viventi. E a tutte cose in ver principio è l’aere: Ei gravi spesso all’uomo i morbi apporta, Nato nei molli corpi in mille modi A infracidire, e a pigliar presto, e i presi Mali a recare. — Or come abbia il contagio Preso, e il tempo mutar chè vaglia, apprendi. Prima il nitido Sole e gli astri tutti Scuotono, e a mutar dansi e cielo e terra, E il liquid’aere, e come anche su in cielo Cangiar le stelle e corso e sedi, al pari Gli elementi quaggiù piglian pur essi Aspetti varii. Or vedi allor che all’Ostro Piegò i presti destrieri il sol d’inverno, E basso più vede il nostr’orbe, dura Per gel farsi la bruma, il suol cosparso Di pruina, ed in ghiaccio i fiumi stretti. Se poi vicino al Cancro alto ci guarda, 8 145 150 155 160 165 170 Boschi arde, asseta prati, e in polverosi Campi squallor piglia l’estate; e certo Lo splendor della notte, l’aurea Luna, Cui serve il mare ed ogni umor, e il grave Astro Saturnio, e quel di Giove all’orbe Più mite, e Cipria bella, e l’igneo Marte, E l’altre stelle mutano pur esse Con moti strani gli elementi ognora: E più se molte insiem congiunte sieno, O segnino altre vie con vario corso. E ciò dopo molt’anni, e molti giri Del ciel rapido avvien, volgendo i fati Al cenno degli Dei: ma quando accada, E maturinsi i tempi e i dì prefissi, Quai casi ai salsi mari, e ai campi eterei, Quai sovrastano al suol! Qui tutto è nube Che in ciel s’addensa, e lo distempra in pioggia, Onde travolti a precipizio i fiumi Dagli alti monti, i boschi seco, i sassi Seco trarran gli armenti: urtando forte O il padre Gange, o il Po torbido, sopra Tetti e boschi, fia pari al mar sonante. L’estati altrove fien cocenti, e anch’esse Sugli arsi fonti gemeran le Ninfe, O i venti tutto inverdiranno, o chiusi Scuoteran l’orbe, e le città turrite. E dì forse v?rrà, dei fati al cenno E di Natura, in cui non sol la terra Or colta andrà dal mar coperta, o nuda; Ma il Sol medesmo — (e fia chi ’l creda?) — nuovo 9 175 180 185 190 195 200 Prenderà corso, e il muterà pur l’anno Inusato calor, freddi inusati Verranno, e un cotal dì nuovi animali Darà al mondo, e da sè fere ed armenti Spirto trarranno dall’origin prima. Forse e maggiori osa produr la terra Darà Enceladi e Cei, col gran Tifeo, Presti i Numi a cacciar dal patrio cielo, E svelto impor l’Ossa al nevoso Olimpo. Locchè veggendo, è nulla a tempo certo Guasto l’etra veder per morbi nuovi, E nuove pesti da stelle prefisse, Egro l’uomo patir per lunghe etadi. Due secoli passar da poi che Marte Coll’infausto Saturno i rai cocenti Commisti in orïente ed in ira i campi Inaffiati dal Gange, arse una febbre, Che (o Dio!) sputo di sangue, ansando il petto, Dèsto, morte affrettava al quarto giorno. Cotal morbo agli Assirii e i Persi, e quelli Che beon Tigri ed Eufrate, a tempo breve, Colse, e l’Arabo ricco, e il molle Egizio; Indi i Frigi, e oltremar miseramente Il Lazio, e crudo Europa tutta invase. Tu dunque meco a veder vien girarsi In sé l’etra costante, e le superne Sedi, e le stelle ardenti, e nota quale Fosse lo stato lor, quai segni desse, 10 205 210 215 220 225 Che cosa abbia predetto il Cielo a noi. Forse che in ciò tutta vedrai del nuovo Morbo la causa, e di cotanto evento. Guarda dal vasto Olimpo ov’egli il Cancro Veglia all’ardenti porte, a branche aperte. Quindi gli orridi aspetti, e quindi i varii Mostri vedrai dei morbi, e quivi solo Tutti gli ardenti rai degli astri uniti Congiurate vibrar fiamme per l’etra. Fiamme cui da lontan, della Sirena Dall’alto avel, vide l’antiquo Vate, Cui la divina Urania apprese tutte Le sedi eteree, ed il futuro, e disse: Salvate, o Numi, le infelici terre; Veggo inusata errar tabe che il cielo Infetta; a guerre inique Europa in preda, E correr sangue i campi ausonii. — Ei disse, E i suoi presagi consegnò allo scritto. Usan gli Dei, come percorso à il Sole Certo giro d’età, che Giove assegni I fati, apra il futuro, e quanto deggia Terra e cielo aspettar. Tal tempo urgendo A’ nostri dì, Giove, de’ Numi il padre E delle cose, a sè chiamò compagni Saturno e Marte nell’oprar. — Dischiude Delle porte le soglie bipatenti Il Cancro ai Numi, che dei fati àn cura. Presto Marte guerrier fra tutti in armi 11 230 235 240 245 250 255 E per foco lucente, il petto colmo Di vendette e di guerra, al sangue anela. Giove, placido Re, su d’aureo cocchio Vien dopo, equo ad ognun, se assenta il fato. Ultimo, e tardo per etade e lunga Via, giunge il Veglio, che à la falce, e sente Antico incontro al figlio, cui ricusa Egli obbedir, l’odio, onde spesso addietro L’orme volge, e minaccia indispettito. Ma Giove, da quel trono u’ s’erge ei solo, Apre i fati e il futuro, e molto i mali Della terra infelice egli compiagne, Le guerre, i casi umani, le rovine Degli imperi e le prede, e a morte schiuse Le vie; ma più l’incognito contagio Di mal nuovo, cui l’uom domar non puote. Assentir gli altri Dei; tremò l’Olimpo, E l’aer tocco da novelli influssi L’aeree piagge a poco a poco, e il vano Infettarsi del ciel, donde inusata Tabe pel cielo si disperse ovunque. Sia che, molli astri coll’ardente sole Congiurando, traesse ignea una forza Da terra e mar vapori, che, commisti Ai venti lievi, esto novel contagio Raro a veder recassero; ossia ch’altro Sceso dall’etra corrompesse ogni aura: Sebben; ned erro, arduo egli è dir quel ch’opri, E con qual norma, il ciel, certe di tutto 12 260 265 270 275 280 285 Cause cercando; che talor lunghi anni Differisce gli effetti, e meschia in tutto (Donde l’error) le sorti ai casi varii. Or via; ciò soprattutto apprendi: strana Dei contagi e sì varia esser natura, Che l’aer talvolta i soli alberi offese E i molli germi e i fior: talora tolse, Stento d’un anno, seminati e liete Messi; ruggine scabra i gambi invase, E diè la madre terra infetti i semi. Soli talora gli animali, e d’essi O molte, o qualche spezie, ebberne pena. Tal maligna stagione io pur ricordo, E tal per Austro umido Autunno, in cui Sol le capre perian: lieto il pastore Le traea dalle stalle ai paschi, e mentre Ei cantava securo all’ombra densa, Molcendo il gregge coll’umil zampogna, Irrequïeta ecco una tosse alcuna Prenderne, e morir tosto: a salto spinta Ruinoso, versando il fiato estremo, Moribonda cadea fra le compagne. A primavera quindi, e alla seguente State ria febbre la belante greggia (O stupor!) tutta quasi a rapir venne. Son dell’infetto ciel varii cotanto E germi, e spezie, e il numero a vicenda Tra cose mosse, e tra moventi, è fisso. E non vedi la lue, benchè sien gli occhi 13 290 295 300 305 310 315 Molli, ed esposti più che il petto anelo, Ficcarsi in fondo del polmone? — È l’ uva Molle dei pomi più, pur non per essi Guastasi, e l’uva stessa offende l’uva. Che forze qui, quivi alimento manca, Gli indugi altrove ànno influenza, e i pori Or troppo fitti, or troppo radi, anch’essi. Nei contagi poichè dunque sì varia Natura e spezie, e in modi portentosi I germi ancor, tu ben t’affisa in questo Che origine à celeste, ed inusato, Quanto ammirando, apparse. Ei non corruppe Del mar i muti abitator, non belve Pei boschi erranti, non augelli o bovi Non gregge, non destrier; ma l’uom fra tutti, Forte di mente, e ne pasceo le membra. Nell’uomo poi quanto à di crasso il sangue La turpissima assalse, dalle parti Più molli a sè traendo un pingue pasto. Tai norme procedean fra morbo e sangue: Or tutte io dir le affezïoni e i segni Vo’ della peste rea: così mi doni Favor la Musa, e tal difesa Apollo, Signor dei carmi e dell’età lontane, Ch’aggian le mie memorie eterna vita. Forse ai nostri nepoti e’ fia che giovi Aver appreso di tal peste i segni. Che dei fati al voler, gli anni volgendo, Tempo verrà, che in notte atra sopita 14 320 325 330 335 340 Anco morrà; dopo cent’anni e cento La stessa rivedrà quindi le stelle, E fia nuovo stupor d’età venture. Mirabil era in pria, che il morbo appreso Certi spesso di sè segni non desse; Che già di Luna empiuto un quarto corso, E sebben entro penetri una volta, Tosto per questo e’ non si mostra, e occulto Cova, finchè si nutra e pigli lena. Da insolito torpor gravato intanto E da spontanea languidezza vinti Pigri e più tardi si moveano all’opre. Anche il color natio degli occhi e spento Cadea il color della non lieta fronte. Nata la carie fra pudende turpi Coll’inguine rodeale invitta e lenta. Feansi più chiari poi del morbo i segni: Perchè, come fuggia del puro giorno L’alma luce, e le tristi ombre notturne Cadeano, e quel calor, che suole innato Addentrarsi la nolle, avea fomento Tolto all’estreme parti; allor le doglie Fiere prendeano ascelle, e braccia, e polpe. Che la tabe, com’era entro alle vene E i nutritivi umori avea macchiato, A separare il mal Natura avvezza Fuor dal corpo spignea la parte infetta, E perchè tarda per crassizie ell’era, Tenace e lenta uscendo, s’attaccava, 15 345 350 355 360 365 370 Nè poca, ai membri ed ai lacerti esangui: Stesa ai nodi indi fiero un duol recava. Pur più presta ad uscir la sottil parte Feria la prima cute, e i membri estremi. Tosto invadean pustule informi il corpo, E fean turpe la faccia, orrendo il petto. Nuova specie di mal; punta di ghianda Rassembrava la pustula, di crassa Marcia rigonfia, ch’indi a poco rotta Molta sanie grondava, e muco, e tabe. Ch’anzi scavando, e con celarsi in fondo, Poscia miseramente i corpi, e spesso Arti di carne brulli, e squallid’ossa Io stesso vidi, e bocche in sozzi modi Squarciate, che metteano un fil di voce. Come stillar dall’umida corteccia Suol ciriegio o di Fille il tronco infausto Pingue licor, che in lenta gomma indura: Suole così da questa peste un muco Correr pel corpo, che s’addensa in callo, Onde alcun, sospirando il fior degli anni E sua beltà, visti con guardo bieco I membri informi, e il gonfio viso, i Numi Misero! chiamò spesso e gli astri crudi. Dolci sonni notturni intanto lassi Tutti traeano gli animali in terra; Ma quïete per essi e sopor nullo: Odïata sorgea l’alba, e nimica Della notte e del giorno avean l’imago. Cerere in nulla, e in nulla i don di Bacco 16 375 380 385 390 395 400 Loro valean: non dolci e in copia i cibi, Non di città piaceri, agi di villa, Benchè nitide fonti, e Tempe amene, E cercasser sui monti aure tranquille. E preci sparse, ed arsi incensi ai Numi Fur anco, ornate l’are a ricchi doni: Ma non mosser gli Dei preghiere e doni. Dei Cenomani io stesso, io mi rammento, Ve’ con onda Sebina Oglio trascorre I pingui paschi, insigne aver veduto GIOVANE il più felice, ed in Ausonia Illustre più, di pubertà sul fiore, Per auro ed avi, e per beltà potente, Cui studio era frenar destrier focosi, O cinger l’elmo, o sfolgorar tra l’armi, E in dura lotta avvalorar le forze, E cervi preoccupar, dar caccia a fere. Le fanciulle del Pò, le Dee dell’Oglio Lui bramaro, e le Dee delle foreste, E della villa le fanciulle: tutte Ne desïar le nozze. — Alcuna forse Da lui negletta, i Numi, e non invano, Mosse a punirlo; ed ei, nulla temente E di sè baldo, sì ria peste incolse, Che più crudel non fia, nè fu giammai. A poco a poco allor sparve quel fiore Di coraggio e di età; squallida strinse La tabe gli arti — (orrendo a dirsi!) — e l’ossa Maggiori si gonfiar per tumor sozzi. 17 405 410 415 420 425 430 Dei che pietà! Deformi ulceri i vaghi Occhi, e l’amor pascean dell’alma luce: Rôse acre umor le nari; e così alfine A tempo breve l’infelice l’aure Odïate lasciò. — L’Alpi vicine, E i vaghi fiumi il piansero, e dell’Oglio Le Dee, le Ninfe Eridanine, e quelle Della villa, e le Dee dei boschi, e il lago Sebin lo pianse amaramente. — Adunque Cotal peste mescea crudo Saturno Per l’ampie terre, e Marte al par crudele Empie sorti aggiungea; che d’essa lue Coll’apparir, cred’io, tutte sventure Vaticinar le dire Furie a noi, E tutti i guai dal fondo imo e dall’atra Palude i laghi vomitar d’Averno E peste, e orribil fame, e guerra, e morte. Patrii Numi di cui posa in tutela Italia, o tu del Lazio, o tu Saturno Padre, e che tanto mal mertaro i tuoi? Che ci resta a soffrir d’aspro e di grave? Chi mai s’ebbe sì avverso il ciel? Tu prima O Partenope narra i danni tuoi, Le rapine, i Re spenti, e i tuoi cattivi. Forse dirò la strage infanda, e il sangue Franco ed Italo sparso in lotta pari, Quando sanguigno, e d’uomini e cavalli Corpi estinti traendo, ed elmi, ed armi, All’Eridano in sen correva il Taro? 18 435 440 445 450 455 E te di stragi nostre Adda spumante, Te lo stesso Eridan padre infelice Quinci non molto al seno accolse, e teco Pianse, e ti diè d’amiche onde conforto. Povera Ausonia! ecco il valor tuo prisco, E a che l’impero tuo Discordia addusse! Avvi un angolo in te che non soffrisse Barbara servitù, rapine e stragi? Ditelo voi vitifere colline Ai tumulti non use, ove il Retrone Ameno scorre, e al mar con piene corna Tendendo, all’onde Euganee unirsi affretta. O Patria a lungo lieta, e a lungo in pace Più ch’altra mai, santissima di Numi Stanza; o Patria d’eroi feconda e d’auro, Per pingui campi, e d’Adige e Benaco Per l’onde altera, i mali tuoi ridire Chi potrà mai? Chi ai dolor nostri i detti Far pari, e all’onte ed ai comandi iniqui? Copri il capo Benaco, e in te l’ascondi, Nè più rigar, già Dio, fastosi allori. Ed ecco, quasi che lagrime a noi E mancassero guai, fra tanti lutti, Ecco del Lazio quella speme, e quella Speme di Palla estinta: al sen rapito Te delle Muse per morte crudele D’anni in fior te vedemmo ANTONIO-MARCO, 19 460 465 Del Benaco sepolto in su l’estrema Riva, cui bagna la Sarca sonante. Te dell’Adige piansero le rive: Te chiamar l’ombre di Catullo, e nuova Intesero dolcezza i patrii boschi. Il Re Franco di guerre allora empiea L’opima Italia, a fren stretta Liguria, Mentre Cesare altrove a ferro e a foco Mettea gli Euganei, e il Sil placido, e il Carno Ribelle, e il Lazio tutto era nel pianto. 20 5 10 15 20 25 Or qual la vita da tenersi, quale La cura intorno a danno tanto, e il tempo, (Che del mio canto l’altra parte è questa) E i mirandi dirò dell’uom trovati: Che al nuovo caso sbalordito, in pria Molto tentava invan, sin che maggiore Fessi l’ingegno nella stretta, e crebbe Per l’uso esperïenza; allor gli aiuti Potè lunge recar, frenar la peste, E vincitrice al cielo erger la fronte. Io credo ben, che la superna aîta Molto c’insegni, e ne sien guida i fati. Che sebben fera la stagione, e inique Fosser le stelle, non del tutto a noi Mancò il Nume, e il favor di ciel benigno. Se un insolito mal, se tristi guerre, Se noi vedemmo de’ Signor nel sangue Tinte le case, e le città, le rocche Arse, e i regni distrutti, e i templi, e l’are Contaminate; se all’urtar dei fiumi Rotte le sponde, i colti invasi, e l’acque Rapir le selve, e coi pastor le greggie, E penuria crudel premer le terre; Questa pur, questa età medesma (quello Che il destin negò agli avi) il mar poteo Tutto solcar quanto Anfitrite il cinge, Nè dall’ultimo Atlante ai golfi Esperii 21 30 35 40 45 50 55 Giunger bastolle, e sotto l’Orsa a Prasso, Veder di Rapto i lidi alpestri, e addurre Dal mar Carmano ed Arabo le merci; Ma più si giunse alla Titania Aurora Sopra Indo e Gange, ove al noto orbe dava Catigara confin, Ciambe lasciata, E le d’ebano e noci altere selve. Dal nostro un mondo al fin per genti e cielo Diverso, e chiaro per maggiori stelle, Toccammo, i Dei reggendo il corso ardito. Insigne un Vate anco vedemmo, al canto Di cui fer plauso Partenope bella, L’ombra di Maro, e il placido Sebeto. Degli astri il giro egli cantava, e gli orti D’ Esperia, e quante à il ciel mutabil piagge. Ma di te per lacer e d’altri, cui Fama appo morte, e le future etadi Porranno a paro degli antichi, o BEMBO; Di quel non tacerò, dono a noi dato, Magnanimo LEON, per cui s’estolle Il Lazio, e la gran Roma, e dal suo letto A Roma trïonfante il Tebro applaude. D’esso al favor, le avverse stelle al mondo Già cessan di far onta, e Giove regna Diffonditor di pura luce in cielo. Sol Ei, appo tai pene e lunghi stenti, Agli ozii dolci le fuggenti Muse Richiamò, e al Lazio il prisco dritto e il retto, E la pietà tornata, in mente volge Sante per Roma e per la Fede imprese. 22 60 65 70 75 80 L’ampie bocche del Nilo indi, e l’Eufrate, E d’Asia treman l’onde a tanto nome, E fugge l’Egea Dori agli istmi suoi. Finch’altri adunque sì gran cose, e i fasti Di Lui racconterà, tu stesso mentre Vita gli vuoi dar forse in carte eterne, Noi, cui non chiama il fato a tanto, i nostri Scherzi seguiterem con tenue Musa. Prima, perchè non una il sangue affetto Indole serba, di quel mal più spera Che sangue puro invase: in quel cui l’atra Bile fa gonfio, e denso alza le vene, Stentasi più, tenace è più la peste. Val quindi usar incontro a questi i forti Mezzi, nè perdonarla ai membri infetti. Anzi tutti sperar lieti i successi Quegli può, che scoprir seppe alle prime La tabe occulta, e serpeggiante addentro; Che quando dopo lungo pasto in forza Venne, e fermò nel sangue il suo veleno, Quanto a riaver tua libertà di stento! Dunque ai primi principii opponi ogni opra, E serba i miei precetti in mente fermi. E pria non d’ogni ciel ti voglio amico: Fuggi, ve’ spira austro perpetuo, o fango, . O grave odor manda palude immonda. Meglio l’aperto campo, e i larghi spazii, 23 85 90 95 100 105 110 E in colli aprichi anco le aurette, e i molli Zeffiri, e d’Aquilon l’äer battuto. Qui, il comando, non ozio, e non riposo: Non indugiar; in caccia faticosa Ratto insegui il cinghiale, e l’orso insegui, Nè ti sia grave, dell’aerie rupi Vinto il dorso, fugar rapido cervo In valle, e in cerca gir pel bosco a lungo. Che ben vid’io, chi nel sudore estinse, E lasciò il morbo nelle selve. Stendi All’aratro la man, col vomer curvo Lungo apri il solco, e colla marra il suolo Fendi, e le dure glèbe, a lutta lena. Dà di bipenne al piè dell’ardua quercia, E strappa l’orno dall’ime radici, E in casa ovunque esercitarti adopra; Gioca al mattin, di palla al vespro gioca; Fa di sudar in dura lotta, e al salto Vinci il malor; nè ti seduca un lento Incessante desio d’ozio e di letto: Tu del letto fidar, fidar del grave Sopor non ti vorrai: nutr’egli il morbo, E in aspetto di pace inganna, e il cresce. Nè sfuggir men quanto la mente attristi. Caccia l’ire, le cure, e tutto intendi Di Minerva agli studii, ai carmi, ai cori Di giovani e fanciulle insiem commisti: Sol che Vener tu fugga, e i piacer molli, Fatali in ver, poi ch’odiano il contagio Le tenere donzelle, e Cipria istessa. 24 115 120 125 130 135 140 Poi del vitto gelosa aver dèi cura A null’altra maggior. — E pria che tutto Quanti pesci od in fonte od in palude O nei liquidi laghi àn vita, o in mare, Tutti gli vieto: pur ve n’à cui l’uso Concedo liberal, se l’uopo il voglia. Bianca, non dura, e non tenace àn questi Carne, sbattuta fra gli scogli e l’onde. Tai van pel mar le ficidi e le orate Splendenti, e i gobii, e del sassoso amanti Le perchie: tal dei dolci fiumi in riva D’erbe pasciuto il ruminante scaro Solo in fra i sassi. Neppur lodo uccelli Vaghi di stagni, e d’alte fonti, o d’onde In cui cerchino cibo: a te diniego L’anitra pingue, e l’oca ancor più cruda (Meglio ella vegli al Campidoglio); schiva La quaglia tarda per grassezza: il ventre Tu, le interiora, e il tergo, ah il tergo! fuggi Della scroffa ricurva, e del cinghiale, Sia pur in caccia da te colto, il lombo. Poi nè il duro cocomer, nè il tartuffo, Nè ’l carcioffo, ne ’l bulbo ti disfami. Latte e aceto non lodo, non spumose Tazze di pretto vin, quale i Cirnei Od i Falerni od i Pugliesi campi Mandano, o qual da piccolo racemo La Retic’uva: è meglio il vin Sabino, Dalle Naiadi domo a larghe linfe. Che se dell’orto il cibo ami, e le mense 25 145 150 155 160 165 170 Care a Numi; non compre e semplici erbe, Lieto sisimbrio, verdi mente, ed ài Cicorea, e sonco in fior pel verno tutto, E ’l sio che delle fonti ognor tra i rivi Di godersi fa mostra, ed ài le timbre Soavi, e l’odorose calaminte. Liete cògli melisse, e le buglosse, U’ l’onda scorre, e a piene man l’eruca Nel campo, e salso critmo, e bieta, e romice; Danno il lupolo i dumi, e qui raccolgi Asparagi, e vitalba che non aggia Rami e mani distese, e non suoi verdi Corimbi ancor. Ma annoverarle ognuna Lungo e vano sarebbe, e già mi chiama Altra impresa, e le Muse a selve nuove Di Natura vo’ trar dall’ombre Aonie. Onde se non vorranno alla mia fronte Dar un serto d’alloro, e l’onor magno; Alle mie tempie almen, per tante e tante Vite salvate, lo daran di quercia. Se il morbo in primavera od in autunno Ange talun, fresco degli anni, e pieno Di sangue, la regal vena o la media Giova che incida a trarne il fluido impuro. Ma in qual l’assalga poi tempo la peste, Non ti gravi cavar l’umor corrotto, E il contagio depor dal facil ventre. Sol prepara l’uscita; i densi umori Risolvi; attenua i crassi, e taglia i lenti. 26 175 180 185 190 195 200 Dunque il coricio ed il panfilio timo Ch’esce a timbra simil, d’essa più duro, A cuocer corri, e la volubil fronde Del lupolo, e finocchio, e l’apio, e i germi Del capno amaro; aggiungi pur, imago Di polpi irsuti, il polipodio, schivo D’acque l’adianto, e l’infecondo aspleno, E la pinta fillite; il che beuto Più di prima, e l’umor crudo concotto Con acre scilla, e colicintid’aspra Ti cura e con elleboro, e coll’erba Che surta in riva al mar, cangia tre volte Al dì il color de’ fiori, e al nome il dice. Giovan le sue radici, unite al zenzero, Al cocomero anguineo, e al Nabateo Incenso, e a mirra, a bdelio, a panacea, E liquore ammoniaco, e bulbo colchico. Ciò fatto, se per sorte ài freddo e molle Sortito il core, nè tentar le acerbe Ti piacerà sì tosto, e spegner presto La peste, ma sol vie placide a tempo; Ai lasciati fomenti il far ritorno Sol ti resta, ed opporti al germe reo, In ammirandi modi a serper uso. Giovino adunque gli essicanti, e quelli, Ch’ostano resinosi a sanie putre. Tal della mirra è il pianto, e tal l’incenso, L’aspalato, il cipresso eterno, e il cedro, 27 205 210 215 220 225 230 Ed il cipero, e il calamo odoroso. Casia adunque non manchi, e non amomo, Noci moscate, agalloco, canella. V’è pur nei prati, e alle paludi appresso Scordio a veleni, e a tutte pesti, avverso, Erba, che a lieve stento aver tu puoi: La chioma à verde, ed il camedrio imita; Rosseggia il fior; d’aglio à sapore e nome. Di questa alla prim’alba il crin frondoso, E cuoci la radice, e bevi a josa. Nè taceran di Te miei carmi, o Cedro, Gloria d’Esperie e selve Mede, e quivi, Benchè lodato pria dai sacri vati, Non sdegnerai la mia medica Musa. Così verdeggi ognor tua chioma, e folta Sempre, e per nuovo fior fragrante, e carca D’auree pendenti poma, orni la selva. Dunque i ciechi a sturbar germi del morbo L’ammiranda preval citerea pianta, Che a lei Ciprigna, Adone suo piagnendo, Molte accrebbe virtudi, e diede i doni. Nel concavo talun di vitreo vaso Che oblungo à il collo, e tondo il ventre in giro, Manipoli d’Ideo Dittamo, o d’Edra Cuoce, o d’Iride illiria, o la radice Negra del Ramno, o l’Enula: il vapore Alto n’esala, e lieve il vuoto n’empie. Ma come l’aere incontra, e il freddo vetro, Stringesi denso in umida rugiada, 28 235 240 245 250 255 E pel canal trascorre in vago rio. Dell’acqua distillata ai primi albori Recano un nappo a ber, indi nel letto Comandano il sudor, nè invan, ch’ei vale Le reliquie del morbo a scior nell’aure. Se intanto t’ange le convulse membra Maligno duol, t’affretta di lenirlo Con olio masticino, esipo, o lento Grasso dell’oca; arrogi emulso il muco Di lin, narcisso, ed enula, con fluido Mele e croco coricio, e d’olio schiuma. Che se il viso e le fauci erpete reo T’assal, con nitro ed acqua medicata D’erugin verde, il mal, che serpe, aduggi. Pur dei caustici sol potrà la forza L’ulceri consumare, aggiunta ad essi, Che gli addentri con sè, parte di grasso. Così qual altra piaga i membri infetti Pasca, e i duri potrai calli disciorre. Se poi tentato invan ciò pur ti sembri, O ad ogni prova ài spirto e forze pronte, Nè vuoi protrarre, anzi le acerbe agogni, Più presto a consumar la peste infame; D’altri rimedii ti dirò, che quanto Aspri son più, tanto più presto i guai Cessan del male: dappoichè la cruda Tabe, tenace assai, ma che per molto Fomite, ardita, le vie dolci e miti 29 260 265 270 275 280 285 Sdegna, cura non vuole, e più resiste. V’à dunque chi storace, e chi cinabro Usa alle prime, e minio, e stimmi, e trito Incenso, e il corpo con profumo acerbo Vapora, ad assorbire il reo contagio. Ma in vero tal rimedio in parte è duro, Fallace in parte, poichè il fiato arresta Nelle fauci, e l’anela anima appena Dall’uscir si contien pel corpo tutto. Perciò non s’usi, a mio consiglio, e giovi Ai membri sol, cui pascono chironie Ulceri, e informi pustulette. — Meglio Del vivo argento, ch’à miranda possa, Valgonsi i più: sia perchè il caldo e il freddo, Ratto sente, onde presto il nostro foco Riceve, e gli umor scioglie, e meglio agisce, Qual fiamma abbrucia più candente ferro: Sia perchè l’acri particelle, ond’esso Consta mirabilmente, svincolate Come possan nei corpi entrar distinte, Struggon tumori, ardon di peste i germi: Sia che il fato o natura altra gli desse Virtù, dono è de’ Numi, e tal trovato Di cui vo’ dire; e chi stupendi i doni Può ridir degli Dei? — Là della Siria Nell’alte valli, a glauche selve in mezzo Di salci ombrosi, u’ di Calliroe è il fonte, Fama è che Ilceo, cultor d’orto agli agresti Dei sacro, e di foreste, e cacciatore Di belve, colto da cotanto morbo, 30 290 295 300 305 310 315 Il cipero annaffiando e la fragrante Selvetta della casia e dell’amomo, Così pregasse: — O Dei, che sempre io stesso O’ venerato, e tu Calliroe santa Che i morbi fughi, e cui pur ora affissi D’un cervo e testa e corna ad alta quercia; Dei, se infelice a me questa torrete Peste crudel, che notte e dì mi strugge, Io le purpuree e candide viole Prime dell’orticello, e i bianchi gigli, Le prime rose, ed i giacinti primi, Darò in serto odoroso ai vostri altari. Ivi sorgea verde gramigna, e lasso Ei si corcò, ciò detto, all’erba in mezzo. Qui Calliroe la Dea, che al vicin fonte Bagnavasi, con lene onda scorrendo Dal liquid’antro pei muscosi sassi, Col soave sussurro il senno infuse Nel giovin sulla ripa ai salci in mezzo, Ed ei dal sacro fiume uscir la vide, Ed in sogno così dirgli pietosa: Ilceo, o dagli Dei nel mal estremo Inteso, o tu mia cura, ovunque il Sole Splenda nell’orbe, non sperar salute. Trivia, e alla prece sua Febo, t’affligge Pel sacro cervo che feristi al fiume, E per l’orrido capo ai tronchi nostri Infitto: poi che esanime ella vide La belva e il mozzo capo, e il suol del sacro Sangue cosparso, empieo di lai la selva; 31 320 325 330 335 340 345 Maledisse all’autor. Di tanta suora Febo udì il prego, e peste immonda d’ambo Per l’ire avesti, ovunque splenda il Sole, Fuor d’aita: indi alla terra in fondo Fra l’ombre déi cercar, se v’à, salute. Sotto il monte vicin, da piante chiuso, V’à un antro per orror tremendo, dove Sorge a Giove gran selva, in cui le cime Dei cedri mandan rauco suon; quì vanne Come rompa l’Aurora, e negra agnella Supplice svena in su l’entrar: grand’Opi, Dicendo, a te la sveno; indi la Notte, Le Ninfe, ignote Dee, gli Dei dei boschi, D’atro cipresso e tia abbiano incenso. E a te, che narri il caso, e invochi aita, Non mancherà la Dea, che te nei sacri Del suol recessi adduca, e regga attenta. Or sorgi, nè temer di sogno in questo: Quella son io, che per i pingui colti, Scorro con pure linfe, e tu conosci. Disse, e presto l’azzurra onda l’ascose. Egli tolto al sopor mite, s’allegra Del bene, e voti offre alla ninfa amica: Sì che ovunque ti seguo, o del vicino Fonte Calliroe diva; e come ruppe Nuova l’aurora in ciel, nella di Giove Selva, sott’esso l’ardue rupi, l’antro A sè dimostro entrò: la negra agnella 32 350 355 360 365 370 Ferma sul limitar, e tremebonda La svena ad Opi, e a Te, grida, la sveno Grand’Opi; indi la Notte; e della Nolle Le ignote Dive invoca, e già il cipresso Atro, e ardeva la tia, quando una voce Sotterra al sacro delle Ninfe orecchio Giunse, di lor c’ànno i metalli in cura. Tutte scuotonsi tosto, e lascian l’opre, Mentre liquidi zolfi, e vivo argento Trattavano a ritrarne il fulgid’auro, E li cuocean premendo in frigid’onda Cento di foco spessi raggi, e d’etere Abbruciato, e di terra e mar frantumi Mescean, semi sfuggenti ai guardi nostri. Lipare intanto, Lipare che d’auro E argento à cura, e i sacri arde bitumi, Di sotterra ad Ilceo ratta sen viene Per cieche vie; lo racconsola, e dice: Ilceo, poichè il tuo nome, ed il tuo morbo, Ed a che vieni il so, caccia i timori. Calliroe mia qui non ti manda invano: Avrai salute della terra in fondo: Fa core, e per le mute opache vie Seguimi, e duce avrai me stessa al fianco. Sì disse, e l’antro cieco entrò la prima. La segue egli, stupìto a quelle vaste Vie della terra squallide in eterno, Antri ognor ciechi, e sotterranei fiumi. 33 375 380 385 390 395 400 Lipare allor: quant’ampia terra vedi Di luce muta, a notte sacra, è sede Di Numi, e n’à Proserpina il profondo, L’alto i fonti, che fuor dagli antri sacri Van per vie late romorosi al mare. Stan ricche Ninfe in mezzo, onde i metalli Lucid’or, rame, argento origin ànno. Ed una io delle suore a te pietosa Ne vegno, io stessa, che per vie montane Noti a Calliroe tua fumanti solfi Mando: fra terra e fumo ivano intanto. — Ma già le fiamme crepitar, e i chiusi Zolfi e di rame strider le fucine S’odon: quest’è, la Vergin disse, terra Del metal vario pregna, onde cotanto Cale a voi che del ciel l’aure beete. Mille abitiam noi Dee quest’antri cupi, Noi figlie della Notte e della Terra, Piene d’arti e virtù: s’adopran l’une L’acque a dedur, l’altre a cercar scintille E di commisto foco i germi ovunque: Mescon materie quelle, oppongon queste Alle masse ripari, e infondon l’acque. Non lunge a canne aperte etnei Ciclopi Àn le fucine, e cuocono, e riversano, Vulcan stride, e il metal sonante battono. La manca interna via conduce ad essi: Ma del rio sacro la diritta all’onde, Onde d’argento e di metallo vivo, Speme a salute. — E già tenean le aurate 34 405 410 410 420 425 430 Volte, e di spodio le mura grommate, E di fuligo e glauco zolfo intorno. Già del liquido argento agli ampii laghi Stavansi presso, e ne tenean le sponde. E qui di tanti guai ritrovi il fine, Lipare aggiunge; per tre volte asperso Del sacro fiume, attufferansi in quello. Disse, e tre volte del salubre argento L’asperge; tre colla virginea mano D’acqua, e terge tre volte il corpo tutto Del giovane, che ammira, e sè mondato, E lasciata la rea peste nel fiume. Dunque tosto che t’abbia il ciel più puro, Ed il nitido giorno, e il Sol vedrai, Alla casta Diana, e l’ara appresta Del loco ai Numi, e dell’amico fonte. La Vergin disse, e il giovane che a tanto Dono grazie porgea, dal sen di notte Tolto, sano rediva al dì bramato. La nuova fama acquistò fede, e ovunque Disse certo il rimedio, onde da pria Sugna porcina a fluido argento unissi; Indi d’Oricio terebinto pece, E di larice aerio; altri usa ancora D’orso o cavallo il grasso, o bdelio, o cedria. Altri gocce di mirra, o incenso maschio V’aggiunge, o rosso minio e zolfo vivo. 35 435 440 445 450 455 Nè spiace a me se alcun tritura, e mesce L’iri esiccante, il galbano, l’elleboro Graveolente, il lasero, e il salubre Di lentisco olio, e zolfo ignoto al foco. Or ungerne, e coprirti il corpo tutto Turpe nè osceno ti rassembri, un male Fuggi così, di cui nulla è più sozzo; Sol che i molli precordii e salvi il capo. Cinganti allor velli di stoppia e fascie; Molte sul letto poi coltre t’imponi, Sì che impuro il sudor stilli dal corpo: Tanto basti iterar per giorni dieci. Aspro; ma è da soffrir quant’egli è d’uopo. Fa cor; certa salute ài già da presso. Vedi negli escrementi il mal si stempra! Assiduo sputo ti spumeggia in bocca, E largo ai piedi tuoi fiume di tabe. Brutte macchino pur ulceri il volto, E tu il bagna con latte, o vuoi con succo Di spocistìde e di ligustro verde: Ed or Falerno generoso e Chio, E spumante in gran nappo il Rezio assento. Ma già vincesti, e la salute è teco: Ti resta una sol cura, e blanda al tutto: Con stecade, e lavar il corpo e gli arti Con rosmarin, sacra verbena, e chiome Amaracine, ed eraclei profumi. 36 5 10 15 20 25 Ma più felici ormai le selve, e i colli Del nuov’orbe mi chiamano; da lunge Risuona il mar oltre l’Erculea meta, E plaudono remoti i lidi: or canto Il gran dono dei Numi, e te da ignoto Mondo condotta o sacra planta, cui Dato è impor fine al duolo. — Urania Diva Venera il sacro bosco, e il crin ricinta Di nuova fronda, ed in medico ammanto, Va mostrando pel Lazio i santi rami. E me giovi cantar cose non viste Dai nostri padri, o celebrate unquanco. Forse avverrà, che alcun preso all’incanto Di novitade, e a dir uso altre geste, Canti le poppe con migliori auspicii Ose i rischi tentar di Oceano intatto. Ei dirà pur le terre e i fiumi varii, E le città, e le genti, e i visti mostri, Le misurate zone, e le nascenti Stelle nell’altro ciel, Arto fra tutte: Poi le nuove battaglie, ed i vessilli Dal nuovo orbe recati, e leggi, e nomi. Canti (nè il crederan l’età venture) Quanto dell’Ocean l’onda comprende Sol da una prora misurato e corso. Felice cui tanto donasse un Dio! 37 30 35 40 45 50 55 D’una sol pianta dir le forze e l’uso È per me assai, dove scoperta, e come Strania per tanto mare a noi sia giunta. Nell’ampio Ocrano sotto il Cancro ardente Dove a mezza la notte il Sole a noi Celasi, quasi ignota avvi a gran tratto Un’isola che Ispana i scopritori Disser, ferace in ôr, ma ben più ricca Per l’albero che Jaco in sermon patrio Chiamano. — Liscio egli è; dall’alta cima Sempre verde chiomata, a grande selva, Spande di foglie, e piccoletta ed acre Pende una noce da’ suoi rami in copia. N’è dura la materia emula al ferro, E i tronchi sudan forte ragia al foco. Tagliati àn color vario; alla corteccia Verdeggia il lauro pel di fuori, e dentro À di bosso pallor, fosco è il midollo, Fra l’ebano e la noce, e se il vermiglio Non mancasse, emular l’Iri potrebbe. Studian le genti a cultivarla assai, E pianta ell’è, che i colli e i campi aperti Ovunque veste, nè più santa cosa, Nè cara più, àn quelle genti tutte; Che in quella il Ciel contre la peste pose, E perpetua, la speme: i grossi rami Battono forte di corteccia mondi, O scheggie fan, che immerse in puro fonte Beon l’umore, che notte e dì le macera: 38 60 65 70 75 80 85 Cuoconle poi, nè minor cura àn dessi, Che l’acqua a caso non infurii, e spanda La spuma, che soverchia al foco in mezzo. Ungon di spuma in ver quanto d’immondo Resti pel corpo, e l’egre membra strugga. La metà presa del divino umore Ne ripongono il resto; anzi i frammenti Ricuoprono qual prima, e mel soave V’aggiungono, che sol questa alle mense Bevanda assenton sacerdoti e leggi. Due bicchier poscia del decotto prima Beono a più dì, quando Lucifer esce, E quando tardo in ciel Vespero spunta. Nè cessan pria, che il suo corso mensile, E non compia la Luna intero il giro, Ch’emulo aggiunga le fraterne bighe. Celansi intanto entro ai recessi oscuri, Ve’ non forza di vento, o d’aer fiato Penetri, e offenda con gelato spiro. Che rammentar sopra ogni cosa quanto Sottil vitto e digiuno ognun s’imponga? Che loro è assai n’abbia alimento il corpo A viver solo, nè a mancar di lena. Pur tanto ah non temer! che il sacro umore Le forze, qual ambrosia, anima ed erge; E le membra digiune occulto pasce. Appresso il ber, per due sol ore, sotto Stanno alle coltri, onde il rimedio addentro Scorra, e sudor dal caldo corpo sprema: Nel vano äer così sfuma la peste: 39 90 95 100 105 110 E neppur macchia, o meraviglia! resta. Ulceri più non v’ànno, il duol partio, Dalle membra tornate a giovanezza, E in questo il giro suo Cinzia rinnova. Qual Dio quest’usi a quelle genti noti, E qual caso o destin li trasse a noi, Ond’anco avemmo il prezioso legno, Ora dirò. — Di Nereo i seni ascosi Mossi a cercar dove si corca il Sole, Calpe lasciata, e i patrii lidi, il vasto Ocëano fendeano i pini arditi Per ignoto cammino errando a lungo. Le Nereidi muoveano ad essi intorno, Mostri del nuovo mar, nuotando in frotta, E stupiano in veder le poppe eccelse, E le volanti in mar vele dipinte. Notte era, e in puro ciel splendea la Luna, Chiaro spargente sulle tremul’onde: Quando l’Eroe dai fati a tanto eletto, Duce di flotta in onde vaste errante: O tu Luna, sclamò, che ai flutti imperi, Che nel nostro cammin due volte il corno Mostrasti curvo, e pien sull’aurea fronte, Dacchè terra non vedesi; o del Cielo E della Notte onor, Vergin Latonia, Deh! toccar danne sospirato un porto. Ella udì il priego, e per l’aere labendo In Nereide mutossi, e, qual Cimotoe 40 115 120 125 130 135 140 O Cloto, stette della nave appresso, E, nuotante a fior d’onda, a dir imprese: Navi mie, non temete: all’indomane Terra e porto fidalo aver potrete. Ma non v’arresti il primo lido: il fato Oltre d’assai vi chiama; al mar in mezzo V’à grande isola Ofiri; a lei sia il corso, E sede avrete e impero. — In così dire Urta il pino: egli il mar rapido fende. — Facili spiran l’aure, e già dall’onde Sorgeva il Sol, quando da lunge ombrosi Spuntano i colli, e terra è presso: un grido Dei nocchieri alla terra invia il saluto, Alla terra bramata, e in porto amico Giunti, ai pietosi Dei sciolgono i voti, E curan l’egre navi, e i corpi lassi. Indi al dì quarto, poi che al mar le vele Noto invitò, diero di piglio ai remi; Lieti a rivalicar l’onde cerulee. Lasciano Antilia, in dubbio mar natante L’alta Ammeria, ed Agìa, dei Caniballi L’infame terra, e la silvestre Giane. Ed ecco d’alte torri isole ornate, Molte scoprono in mar; una fra queste Folta di selve opache, risuonante D’un fiume al corso, che nel vasto letto Fulgide arene d’oro al mar travolve. Piace a questa drizzar le curve poppe, Poichè invitanvi i boschi e l’onde pure. Presto del verde suol messi al possesso 41 145 150 155 160 165 170 Salutan pria la terra ignota, e il Genio, E le Ninfe del loco, e te che d’auro Con nitid’onde, o Fiume, al mar trascorri. Quindi la dura Cerere, e il natio Bacco spacciato sull’erboso lito, Chi cerca uom ch’ivi sia, chi d’ôr l’arene. Pei rami ombrosi della selva a caso Svolazzava d’augei schiera che pinta In ceruleo le piume, e in rosso il rostro, Giva secura pel natio boschetto. Come una man di giovani la vide Per l’alta selva; palle orrende, e, imago Del fulmine, lo schioppo impugnan, tuo Ritrovato o Vulcan, ch’armi i Teutoni, E agli uomini lo stral rechi di Giove. Ed ecco ognun l’augel segna cui cogliere; Poi nitro, e zolfo, e cenere, di salcio Calca nell’arma, cui favilla accostasi. L’ignea forza costretta al foco subito Accendesi, dilatasi, senz’obice Spinge la palla inclusa, e questa stridula Fende l’aria: qua e la cadono esanimi Gli augei colpiti; il ciel di lampi infiammasi, E il tuono è tal che poggi e colli concavi, E percossi dal mar gli antri rintronano. — Parte allor degli uccelli al bosco folto, Parte fugge atterrita agli ardui scogli. Ed uno, o meraviglia! empie gli orecchi Di terribili accenti, e a dir imprende: 42 175 180 185 190 195 200 Voi che del Sol violate i sacri augelli, Esperii, or voi quello che il grande Apollo Vi canta, e di mia bocca io reco, udite: Voi, benchè ignari, ai lungamente cerchi Liti d’Ofiri, aura seconda addusse; Ma soggettar le nuove terre, e questi A lunga libertà popoli avvezzi, E cittadi fondarvi, e culto nuovo, Potrete sol, dopo di terra e mare Stenti infiniti, ed aspre guerre, e molti Corpi sepolti nell’estrania terra. Tornar, perse le navi, in patria pochi Potrete, e i socii rivarcato il mare Altri non troveran; quì pur Ciclopi Non mancheranno; vi trarrà discordia All’ire, all’armi, e già s’appressa il giorno In cui di morbo ignoto il corpo infetti, Per aiuto verrete a questa selva, Finchè vi dolga il fallir vostro. Tacque, E s’avvolse stridendo all’ombre in seno. Abbrividir repente; impallidiro, E il sangue lor fredda paura strinse. Allor, pregati i sacri augelli e i Numi, Prima adorano il Sole, e della selva Santa gli Dei custodi, e chieggon pace, Di nuovo salutando Ofiri e il fiume. Bruna il volto ed il crin vien dalla selva Nuova d’uomini intanto inerme turba, 43 205 210 215 220 225 Nuda il petto, di fronde intorno cinta Pacifiche, e le navi, immense moli, L’armi lucenti, e le vesti ammirando, Non ristà dal veder: scesi dal cielo Uomini, Numi, o Eroi, ne stima, e porge, Qual chi adora, di preci a noi saluto. Prima allo stesso Re, cui doni lieti Di biade e d’auro per le rive colto, E natie recan frutta e puro mele. Essi di nostre vesti, e doni molti Presentati, alla gioia e al ber si danno; Come se a mensa, e dei Celesti al cibo, Felice a diventar l’uomo chiamato, Beva nettare eterno in tazze dive. D’ambe parti così gli animi stretti In secura amistà, s’unir le genti: Gli stessi Re fra lor lieti sul lido Stringon le destre, e l’alleanza insieme. L’uno lieve cotone al fianco e al petto Porta, e verde smeraldo il lembo n’orna: Bruno in volto; à la destra acuto dardo; Tien la manca di drago irta una spoglia. Veste guarnacca d’or l’altro, cui sotto Splendono fulgid’arme; un elmo à in testa Di rame, cui dipinte ornan le piume. Aureo cinge smaniglio al niveo collo, E gli pende dal fianco il brando Ibero. E già i popoli uniti, ospitalmente 44 230 235 240 245 250 255 Questi alle case e quelli all’alte navi, Passano in giochi e fra i bicchieri i giorni. Una festa cadeva, ed annuo un rito Al Sol vendicator nel bosco ombroso, Già d’Esperia e d’Ofiri ogn’uom v’accorre. Di valle curva in su le sponde erbose Qui accalcate le madri ed i mariti, Popolo, padri, vecchi, e giovanetti Mesti assisteano colle membra infette, Brutte per croste, e per tabe gemente. Con ramuscello d’Iaco un Sacerdote D’onda pura li asperge in veste bianca. Poi svena bianco un bove all’ara innante, E col sangue di quel, posto ivi presso, Ne cosparge un pastore: al Sol potente Sciolgonsi gli inni armonïosi, e tutti Fan prova di svenar pecore e porci, Le viscere arrostir, mangiar sull’erba. Stupiron gli Europej del rito arcano, E del contagio non pria visto unquanco. Ma il Duce lor, gravi pensier volgendo, Quest’è il mal, seco disse — (o ciel ne scampa!) — Che accennommi del Sol la profetessa. Indi al rege stranier (già detti e lingua Avean comune) a qual Dio spetti chiede, La festa, e a che la tanta in quella valle D’infermi schiera miseranda, e all’ara Perchè un pastor di bovin sangue intriso, 45 260 265 270 275 280 285 Cui: Fortissimo o tu di prodi Ispani Duce, il re disse, è nostro rito offrire Annuo a vindice Nume un sagrifizio: N’è l’origine antica, e gli avi a noi Lo tramandar; pur se gli estranei casi Udir ti giova, t’aprirò le prime Cause del rito e della tabe infanda. Forse che infino a voi d’Atlante venne, E dell’antica sua progenie il nome: Noi pur da lui per lungo ordin venuti Siamo. Ed oh un tempo popolo felice, Caro agli Iddii, sin che devoti e grati Ad essi gli avi fur! Ma poi che i Numi, Pel fasto dei nepoti, ebbersi a scherno; Da quel di quanta la miseria, e quante Le sventure, ridir mal io potrei. Scosse Atlantide allor — isola detta Dall’antico suo re, — grande un tremuoto, E dall’onde sparì ch’ella solcava Donna di terra e mar, con navi mille. De’ quadrupedi allor perir per sempre, E le torme, e le gregge; invan lo studio Del reintegrarle più: l’ostia straniera Bagna l’altare di straniero sangue. E cotal peste pur lurida invase I nostri corpi allora, e niuno, o pochi La scampar, che, adirati i Numi, Apollo, Piomba dal cielo, e le città devasta. Quindi con nuovo rito a tanta festa 46 290 295 300 305 310 315 Gli avi principio diero, e come, or dico: A questi fiumi Sifilo pastore, Fama tal è, mille adduceva i bovi, Mille pel re Alcitòo su questi paschi Le greggie, e Sirio gli assetati campi, E i boschi ardeva, che ai pastor null’ombra Davano più, ne d’aura alcun ristoro. Ei pel gregge dolente, e d’ira acceso Contro il sublime Sole il guardo ergendo: E Dio te, o Sole, e delle cose padre, Sclama, noi dir? Noi, stolti, ergerti altari, Scannar tori, ed offrirti il pingue farro? Forse di noi, forse dei regj armenti Punto ti cale? O non piuttosto invidia Ti punge? — Mille le giovenche nivee, Pascon per me mill’agni; un Tauro solo Tu, s’è pur vero, e in cielo ài solo un Capro, E un Can magro, che guarda a tanto armento. Folle! che non piuttosto un rege adoro, Cui tanti campi, e genti, e tanto vasti Servono i mari, e al Sol va innanzi, e ai Numi? Egli l’aure seconde, ai verdi boschi Ei darà dolce il rezzo, e fresco al gregge. Disse, ned aspettò: sui monti l’are Erse ad Alcitoo rege, e culto diegli. Dei coloni la turba e dei pastori Lo segue, ed arde incensi, e il sangue versa Dei tori, che arrostiti in brani fumano. Ciò che veggendo il Re dall’alto soglio In fra i devoti popoli seduto, 47 320 325 330 335 340 345 Altero pel divin resogli onore, Vieta che in terra alcun Nume s’adori, Pena il suo sdegno; sè maggior di tutti Grida, e solo del Ciel curar gli Dei. — Il Padre Sol, che tutto vede e lustra, Vide anche questo; arse di sdegno; i rai Contorse infausti, e mandò fosco il lume. Tosto la madre Terra e i vasti mari N’andar compresi, ond’arse in vampe l’etra. Quindi a quell’empio suol de’ mali ignoti Una piena. — Chi primo il sangue sparso Al Re porgeva, ed are al monte in cima, Sifilo n’ave turpe scabbia in dosso. Primo convulse membra, e notti insonni Ei s’ebbe, e il morbo da lui primo il nome, Cui sifilide dir piacque ai coloni. E già la peste rea le città tutte Coglie e il Re stesso: indi a cercar d’America Vanno la Ninfa nel Cartesio bosco. Cole America i boschi, e degli Dei Dal profondo del bosco apre i responsi. Chieggon del morbo la cagion, la cura; Ed ella: Sprezzatori o voi del Sole, Egli voi preme: ad uom non lice ai Numi Pareggiarsi; gli date il culto usato; Lo placate, nè l’ire oltre n’andranno. Eterna ell’è, non revocabil mai, La peste ch’ei vibrò; quai uom qui nasca La proverà; lo Stige egli, e il severo Destin giurò. Se pur certo rimedio 48 350 355 360 365 370 375 Cercate, alla gran Giuno offrite bianca Vitella, e negra vacca alla gran Terra. L’una darà dal ciel felice un seme, L’altra una selva dal seme felice. Ciò a salute. Disse, e l’antro e il bosco Ne fur scossi, ed orror fu tutto intorno. Obbedir; l’are antiche ergono al Sole; Bianca vitella a Te, gran Giuno, e negra Vacca svenano a Te, massima Terra. Dico a stupor — ma gli avi e i numi attesto — L’arbor sacra che voi pel bosco tutto Vedete, in questo suol prima non vista, Prese tosto a gittar verdi le fronde, E a invigorir pei campi in vasta selva. Tosto al vindice Sol nuov’annua festa Indice il Sacerdote, e a sorte è tratto Sifilo da immolar solo per tutti. Già già le bende, e il sacro farro in pronto, Di purpureo tingea sangue il coltello. Ma Giuno il fece salvo, e il mite Apollo, Che meglio del tapin ostia un giovenco Vollero, e il suol di ferin sangue intriso. Dunque a memoria di quel fatto eterna D’annua festa sacrar tal rito i padri. Tratto all’ara un pastor vittima vana; Quel tuo delitto, o Sifilo, ricorda. Tutta che vedi la turba tapina, Tocca dal Dio, gli error sconta degli avi, Cui con voti e con preci il Sacerdote Propizia i Numi, e il concitato Apollo. 49 380 385 390 395 400 I maggior rami della pianta sacra Portan seco mondati, ond’ànno un succo D’alta virtù, che fuga il morbo infando. — Traeano in tai parlari, ed altri il tempo Quelle genti diverse insiem commiste. Le navi intanto che, mandate ai cari Liti d’Europa, riedon d’oltremare, Recan portenti: ovunque (o fato arcano!) Egual peste occupar d’Europa il cielo, E le città senza rimedio afflitte. Più forte anzi un rumor va per le navi, Del mal medesmo esser la flotta, e molta Gioventude da tabe i membri infetta. Non obliar dai tristi augei predetto Che cerco fora a quella selva aiuto. Tosto a le Ninfe e al Sol porgendo voti, Tran dall’intatta selva, e dal più fitto Cercano, i tronchi, e tazze medicate Beon, qual v’è l’uso, e con tal succo al fine La rea peste cacciar: ch’anzi dei Numi Tanto dono alla patria, e il sacro arbusto Voglion si rechi, a veder mai se fughi Egual peste ivi pur, nè il fato niega Zeffiri amici, e destro Apollo spira. Voi prima aveste, o Iberi, il divo dono, Stupiti al pronto aiuto; ai Galli or conta, Ai Sciti ed al German, corre applaudito Il Latin ciel l’Iàco, e tutta Europa. 50 405 445 450 Salve o da Numi seminata, illustre Pianta, bella di chiome e virtù nuove, Speme dell’uom, del nuovo mondo onore! Più beata, se pur sott’esto cielo Gli Dei nata fra genti ad essi amiche, E t’avesser voluto eterna selva. Ma tu, se qualche fama al nostro carme Dien le Muse, tu pure in queste parti Cognita, e sino al ciel cantata andrai. Se Te non Battro, e il suol ultimo Artòo, Nè Meroe, e l’arso Ammon tra l’Afre arene; Ben il Lazio, e t’udran l’onde del verde Benaco, e del labente Adige i molli Recessi; e basterà che te del Tebro Legga in riva, e talor t’accenni il BEMBO. FINE.





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